Memoria e futuro….

….si prendono per mano

La nostra primavera

Quando Vittoria arrivò a Raffadali era la primavera del 1945. Trovò un paesino siciliano non bello, non felice ma che la accolse come una figlia. Lei imparò presto e con naturalezza ad amarlo. Da poco sposa, non ancora mamma, giovanissima, aveva già vissuto una vita ed una Resistenza. A Raffadali sarebbero cominciate per lei una seconda vita ed una nuova Resistenza.

Alla fine della seconda guerra mondiale in fondo allo stivale si combatteva con falce e zappa in spalla. Il colpo d’occhio doveva essere quello di una Sicilia bionda di grano, teoricamente liberata dal fascismo ma non dall’oppressione. La Sicilia apparteneva e continuava ad appartenere solo a se stessa ed alla propria miseria. Di quella guerra in Sicilia si ricordano i boati, le macerie dei bombardamenti, l’assenza dei figli chiamati ad un fronte lontano o partiti per le montagne e le città dove avrebbero organizzato la liberazione nazionale clandestinamente insieme ad altri italiani.

Qualcuno non tornò mai più. Salvatore, strappato alla morte e deturpato nel volto, tornò al suo paese portando con sé il sogno della libertà e Vittoria, conosciuta a Milano durante le rispettive attività partigiane. Insieme guardavano ad una nuova vita ed alla battaglia successiva: quella per la difesa dei diritti dei lavoratori. I contadini e le loro donne, stanchi e disorientati, combattevano una guerra quotidiana per la sopravvivenza e la dignità, guerra silenziosa, ripiegata su se stessa.

Vittoria sapeva bene che una libertà passiva non esiste, che la libertà va esercitata e che per lei occorre spendersi. Può essere libero solo un popolo che abbia preso coscienza di sé ed abbia maturato una sua indipendenza intellettuale e culturale. Non sarebbe stata una Resistenza meno impegnativa di quella organizzata fino al giorno prima.

Negli anni ‘40 a Raffadali il suo accento fiorentino, la sua risata libera ed elegante dovevano risuonare come una lingua incomprensibile. Eppure lei, Vittoria, comprese e seppe cominciare a parlare la lingua non scritta della contrada.

Nella calura delle lunghe giornate siciliane gli uomini sudavano sangue nei campi del padrone, lasciavano la casa prima che sorgesse il sole e vi facevano rientro quando questo era già tramontato. Le donne si nascondevano silenziose e diffidenti sotto il fazzoletto nero che ne ricopriva il capo o dietro le persiane semichiuse. Le case erano mondi paralleli nei quali la luce del giorno non riusciva a penetrare, la cui miseria non doveva trasparire. Si procedeva per inerzia. Non posso immaginare che l’arrivo di questa ragazza così giovane, colta, vestita di colori, che sapeva e poteva parlare, ridere ma soprattutto esprimere e sostenere opinioni, non avesse in qualche modo destato delle curiosità. Viveva nel palazzo più bello del paese nel quale l’accoglienza era un diritto riconosciuto a chiunque volesse varcarne la soglia e la carità era un dovere di chi vi risiedeva; aveva sposato un figlio di questo paese, rispettato da sempre ed accolto come un eroe dopo la guerra. Forse anche per queste ragioni Vittoria aveva involontariamente attratto molti sguardi, tanti benevoli ma altrettanti diffidenti. Di lì a poco sarebbero rimasti solo sguardi benevoli.

Imparò a leggere le molte leggi non scritte che di solito spaventano quanti non le conoscano; imparò a capire il dialetto così profondamente da spiegarlo persino a quanti già lo parlassero; imparò a parlare la lingua sordomuta degli usi e dei costumi; si fece osservatore attento ed interprete di una cultura della quale si innamorò ma non smise mai di fare esercizio di critica, quella critica che solo chi ama schiettamente può permettersi.

Quando diede alla luce suo figlio e da Palermo lo portò in paese, sotto il balcone di casa un manipolo di donne bisbigliava a capo chino. Lei si affacciò al balcone col piccolo in braccio e senza dire una parola lo sollevò quasi a volerlo presentare ufficialmente alle donne. Queste a loro volta sollevarono il capo e la accolsero. Era donna e mamma come loro.

Vittoria cominciò a parlare alle donne, in comizi e singolarmente. Ascoltava molto e pazientemente, capiva. Di più: sapeva parlare una lingua che tutti comprendevano fino in fondo, a prescindere dal proprio livello culturale. Mentre gli uomini continuavano a sudare tutto il proprio sangue nei campi e nelle miniere, le donne spalancarono le persiane. Loro, le donne della Sicilia più profonda del primo dopoguerra, uscivano per strada e protestavano in rappresentanza delle proprie famiglie e di tutti i lavoratori.

Qualche anno dopo, una giovane donna, libera per nascita e per cultura, nata a Firenze e cresciuta a Roma, scienziata per formazione universitaria ed attitudine alla ricerca, umanista per animo e capacità dialettica, divenne il primo sindaco di Santa Elisabetta, piccolo comune a pochi chilometri da Raffadali. Proprio nella Sicilia del dopoguerra, proprio lei che era donna, comunista, che veniva dal “continente”, Vittoria Giunti divenne forse il primo sindaco donna d’Italia (la Costituzione approvata nel 1948 conferì alle donne, per una svista quasi ironica, la sola capacità elettorale attiva, mentre poco più tardi venne corretta attribuendo anche a loro il diritto di essere elette).

Le lotte contadine in Sicilia furono anche questo. La coscienza della classe contadina nacque anche nel grembo delle donne che maturarono una certa consapevolezza di sé. Se si pensa alla natura del latifondismo ed ai suoi legami con la nascita e lo sviluppo della mafia, si capisce bene quale importante ruolo giocarono esperienze di questo genere nello sviluppo dell’isola. Quella rivoluzione riletta oggi può assumere due significati: da un lato rappresenta la rivoluzione del popolo siciliano contro la mafia e dall’altro quella culturale delle donne, in Sicilia come in Italia e nel mondo: nessuna delle due rivoluzioni è mai arrivata a compimento, hanno però innescato dei processi irreversibili di maturazione che continuano a contribuire ad un pur lento progresso.

Vittoria Giunti capì gli uomini e le donne. Capì che nessuno dei due può avere successo nelle proprie battaglie se anche l’altro non si prodiga per il successo di entrambi. Vittoria ha vissuto ed ha combattuto con le donne senza mai aver bisogno di fare dell’impegno femminile una teoria. Ha fatto politica, nel senso più alto del termine, contribuendo alla vita ed alla crescita culturale degli ambienti con i quali ha interagito; ha stimolato all’approfondimento politico ed alla maturazione di una propria posizione i giovani che l’hanno conosciuta, parlando con loro di tutto e quasi mai della propria attività politica. È stata donna di partito che non aveva bisogno di sventolare bandiere per testimoniare un messaggio e la profondità delle proprie idee.

Vittoria lasciò la sua vita di tutti i giorni, i piccoli agi, la ricerca e la carriera accademica per un sogno. Quando entrò nel Comitato di Liberazione Nazionale non lo fece perché nel CNL ci fosse bisogno di rispettare certe proporzioni di genere. Quando divenne Sindaco non si fece avanti per garantire una rappresentanza femminile, ma piuttosto un’amministrazione seria, capace, pulita. Se Vittoria ha contribuito alla crescita intellettuale di giovani uomini e donne, l’ha fatto a prescindere dal proprio sesso e dal proprio genere: in quanto persona nata libera ed educata alla libertà.

A fronte dell’impegno per la crescita culturale e politica le quote rosa suonano come una sconfitta o un ripiego. Mi chiedo quanto e se possano essere utili a proteggere un sesso che debole non è. Mi chiedo a cosa servano le quote di partecipazione femminile finché i giovani uomini quanto le giovani donne non siano preparati all’impegno. Se ieri si fosse investito in formazione culturale e maturazione politica di tutti, oggi non sentiremmo la necessità di mettere dei vincoli alle candidature producendo una classe politica a tratti improbabile.

La politica italiana dal dopoguerra in poi vanta alcune grandi figure femminili. Queste donne sono emerse in un mondo in cui solo l’attività politica e culturale maschile veniva promossa. Oggi sappiamo che uomini e donne hanno uguali potenzialità e necessaria complementarità. Occorre rimuovere divisioni piuttosto che innalzare nuove barricate. Occorre che a tutti e a tutte venga trasmessa la consapevolezza di avere uguali diritti e doveri e che la democrazia comincia dalla famiglia e dalla culla. Democrazia è dare a tutti, agli uomini come alle donne, ai figli dei professionisti quanto a quelli degli operai, ai lavoratori dipendenti quanto agli imprenditori, agli scienziati come ai contadini, ai credenti quanto ai non credenti, ad esseri umani dell’una o dell’altra razza… le stesse possibilità e la stessa libertà: lo dice la nostra Costituzione, scritta e voluta, fra gli altri, anche da Cattolici e Comunisti italiani. E la libertà, per dirla con Giorgio Gaber: “La libertà non è uno spazio libero. La libertà è partecipazione”. (Daniela Di Benedetto)