Il mio femminismo – di Cetti Vacante

Concetta Vacante  27.3.1947 – 24.10.2014

Non potevamo non cogliere l’occasione di questo convegno dedicato alle Donne d’Europa per ricordare una cara compagna, una politologa, ricercatrice di politologia, una femminista e sindacalista degli anni duri della lotta per i diritti: la nostra Cetti Vacante, che se non fosse stata strappata a questo mondo poco piú di un mese fa oggi sarebbe certamente qui con noi.

Leggeremo le sue parole, tratte dal testo «Gli anni del mio femminismo», scritto nell’ambito del progetto comunitario «Tam Tam nel Mediterraneo» e per il volume «Mediterraneo una storia di donne e di uomini», pubblicato, in italiano e in francese, nel 1999.
«Gli anni settanta, gli anni del mio femminismo, ma non solo;

quante cose mi sono accadute in quel decennio, forse accadono o sono accadute a tutte le trentenni della mia generazione, ma a me sembrano tantissime, troppe per essere ancora contenute nella mia mente.
Nel ’71 ero ancora a Pisa, a casa mia, con i miei amici, il mio compagno;

nel ’74 ero già a Catania, mi ero sposata;

nel ’76 avevo già perso il primo figlio;

nel ’79 ero già separata e ed era nato Francesco, figlio naturale e dal doppio cognome; nel frattempo ero quasi di ruolo all’Università;

dalla Storia, il mio primo amore, ero passata alla politologia;

dal collettivo d’autocoscienza di via Santa Maddalena al Coordinamento per l’Autodeterminazione della donna;

da semplice iscritta di base della CGIL a dirigente nazionale.
Tutta la mia vita racchiusa in quel decennio, scandito dalle manifestazioni sull’aborto, sulla violenza sessuale e poi il pacifismo;

l’esperienza grande di incontrarsi con altre donne europee;

i girotondi festosi, gli zoccoli e le lunghe gonne al vento ma anche il dolore, la paura per la scoperta di non aver mai conosciuto una madre al cui seno rincantucciarmi:

possibile che vi fosse una differenza nella differenza, la madre, questo terribile oggetto del desiderio, che pensavo di aver allontanato per sempre dalla mia esistenza, quando a diciott’anni me ne ero andata a studiare fuori, chiudendomi alle spalle la famiglia, e che ora tornava prepotentemente con le parole delle compagne del collettivo, per farmi soffrire ancora, e ancora soffrire.
Cetti, chiamata con affetto Cera Liù, perché sempre così lucida, così razionale, così maschio. Cetti, la politica, e non solo per mestiere, Cetti la sindacalista, Cetti che non sa tenere il silenzio.

Quegli interminabili minuti, o forse solo secondi d’attesa prima che qualcuna nel cerchio prendesse la parola.

Forse non sono mai veramente appartenuta all’esperienza dell’autocoscienza, forse l’ho solo attraversata, abbeverandomi ad un acqua per me troppo aspra.

Ma ricordo bene perché ad essa mi sono avvicinata. Quella perdita non voluta del primo figlio, quell’improvvisa sensazione d’incomunicabilità con mio marito, quel dolore sordo e gli occhi di mia madre che mi lasciavano di notte sulla soglia dell’ospedale per poi risvegliarmi nel reparto delle operate di cancro, perché era “giusto” che là finissero quelle che abortivano, anche se per aborto spontaneo. Questa era ancora l’Italia, la Toscana, prima della legge 194/178.
Non potevo che trovare rifugio in quel cerchio: dalle mie simili cercavo una risposta alle mie domande; io che le donne non le avevo mai amate; non avevo parole, né gesti di donne da comunicare, i jeans e le scarpe da tennis erano la mia divisa, tutta la mia vita era stata scandita dall’incontro con i maschi, dai primi giochi infantili alle aule scolastiche, all’università, alla militanza politica.
Cetti, il maschio che mia madre avrebbe voluto come primo figlio. Cetti, la discola, la dispettosa. Cetti che rifiutava di farsi baciare e abbracciare, che cosa ci faceva in quel gineceo? Forse si, forse lo posso dire ora, di non essermi mai data all’autocoscienza: fare in contemporanea la sindacalista, trovare altri luoghi di dialogo con altre donne, era, è stato un modo di salvaguardare quella parte di me che meglio conoscevo, con la quale ero più in sintonia. Eppure quell’attraversamento mi ha insegnato ad amare le mie simili come me stessa, donna e madre. Certo ci ho messo molto più di quei dieci anni e la mia memoria mi dice di luoghi e tempi dolorosi. Guardo mio figlio, oggi adulto, e penso ad antiche parole scritte dopo un otto marzo di tanti anni fa.
(………..)

La luce di un fuoco d’artificio esplode improvvisamente nel cielo, e vi leggo le parole di allora: “Ti guardo bimbo mio e mi sembri un sogno”.

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